La Nigeria sta diventando l’immondezzaio dei Paesi ricchi. O, per meglio dire, di quelli che consumano molti dispositivi elettronici: Stati Uniti, Europa, Cina.
La notizia viene riportata dal sito Futurism, in un articolo che porta la firma di . Secondo uno studio della United Nations University (consultabile QUI in lingua originale) ogni anno in Nigeria finiscono 60.000 tonnellate di e-waste (noti alle nostre latitudini come RAEE, Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche): di questi, il 77% proviene dall’Europa, mentre il resto dalla Cina e dagli Stati Uniti.
Operativamente la prassi è piuttosto semplice: dall’Europa partono container pieni di auto usate (un bene effettivamente richiesto in Nigeria), riempite però di schede usate e altro materiale RAEE. Secondo lo studio esistono anche altre vie per l’importazione, ma questo è il metodo usato nella stragrande maggioranza dei casi (7 volte su 10).
Sono almeno 3 i problemi in tutto ciò:
- L’import-export di e-waste in Nigeria è illegale dal 2002, secondo la Convenzione di Basilea delle Nazioni Unite
- Molti degli oggetti importati (TV, lampade a led e altri tipi di display) contengono sostanze pericolose come mercurio, cadmio e piombo. Se prendono fuoco -come avviene spesso per questi rifiuti, in un tentativo di riciclare rapidamente le parti più di valore- possono rappresentare un grosso rischio per la salute dei nigeriani
- Secondo lo studio, il 19% di questi oggetti non è più funzionante. Se qualcuno pensava che l’Europa stesse “esportando” questi materiali, il report dimostra che in realtà si tratta di uno stratagemma, dato che i materiali non possono essere riutilizzati, ma al massimo separati e riciclati.
Questa storia è il risultato di due tendenze. Da un lato il fatto che sempre più persone -e a ritmi sempre più rapidi- stanno consumando prodotti elettronici nel mondo (attualmente gli statunitensi spendono 1 trillione di dollari l’anno in elettronica, seguiti a ruota dagli europei); dall’altro, il fatto che i Paesi industrializzati non riescono a creare modi altrettanto rapidi ed efficienti per riciclare e riutilizzare i rifiuti. Infatti i prodotti sono sempre meno riparabili e hanno vita sempre più breve (è la c.d. obsolescenza programmata).
Una vicenda che dimostra, una volta di più, quanto sia ormai irrimandabile l’impegno di istituzioni, imprese e consumatori per arrivare ad un modello di Economia Circolare, in cui venga superato il concetto stesso di rifiuto e i dispositivi siano progettati sin dalla fase di design per poter essere aperti, smontati e facilmente sostituiti nelle parti rotte.
Qualcosa, per fortuna, si sta muovendo. Negli Stati Uniti già 18 Stati hanno introdotto il Right to repair Act, il Diritto all’auto-riparazione, una legge che obbliga i produttori di dispositivi a vendere le parti di ricambio e rendere pubblica la documentazione per farlo con semplicità. In Europa è allo studio del Parlamento una proposta simile.